martedì 17 febbraio 2015

L’IPERVENTILAZIONE……UNA SINDROME DIMENTICATA


L’utilità di rivedere  il concetto e le conseguenze dell’Iperventilazione polmonare acuta o cronica nella fisiopatologia  umana credo che possa risultare utile  al fine di comprendere l’importanza di una respirazione corretta  per mantenere o per  ripristinare  un equilibrio psicofisico oggi considerato difficile da raggiungere;  escludendo i  pazienti affetti da patologie cardiopolmonari o quelli degenti in Rianimazione, alla iperventilazione nel quotidiano  viene data scarsa importanza  soprattutto perché la nostra epoca  è caratterizzata dalla fretta e dal desiderio di raggiungere delle  performance sempre più avanzate in ogni campo; tali scelte  influenzano purtroppo negativamente la nostra vita. Ci siamo dimenticati che l’atto respiratorio nel suo complesso, anche se automatico alla nascita, quando si diventa  adulti può essere influenzato dalla volontà  per salvaguardare il nostro equilibrio biochimico interno. Da quanto sopra affermato si  può dedurre che la respirazione necessita di essere preservata dall’acquisizione di abitudini sbagliate che possono renderla  poco efficace se si vuole raggiungere  una buona ossigenazione. In breve una respirazione corretta è fondamentale per  il nostro stato di salute in quanto può prevenire e curare  alcune patologie comuni  nelle quali talvolta è difficile  trovare la causa da cui derivano.

  Fatta questa premessa, bisogna ricordare che  si deve alla perspicacia di alcuni medici militari, durante la Guerra Civile Americana, i quali notarono che lo stress provocato dal combattimento e che si accompagnava ad una respirazione frequente e  superficiale di tipo costale provocava  in molti soldati   alcuni sintomi come: fame d’aria, senso di soffocamento, parestesie diffuse. Da allora questa correlazione tra iperventilazione e i sintomi sopradescritti è stata possibile osservarla sempre più spesso soprattutto in alcune persone superficialmente etichettate come nevrotiche, ansiose e ipersensibili ad alcune esperienze e ad alcune emozioni forti presenti nel loro vissuto.

Questo quadro sintomatologico sopradescritto una volta denominato  Sindrome da sforzo, oggi è  conosciuto come Sindrome da Iperventilazione; essa si può presentare in  forma acuta in individui che di base hanno una respirazione contratta  soprattutto quando inconsapevolmente per un qualsiasi stimolo derivante dallo stress ne accentuano la frequenza; in tal caso l’organismo interpreta l’aumento del ritmo come se stesse vivendo una situazione di pericolo; pertanto il paziente ha paura  e quindi  presenta: un disorientamento, una sensazione di fame d’aria,  parestesie, vertigini, svenimento, paura di morire per infarto o per ictus, timore di impazzire o di commettere atti inconsulti. L’insieme di tali disturbi da qualche anno è catalogato, secondo la moderna psichiatria, come  Disturbo di Panico.

   La stessa sindrome si può presentare in forma cronica o ricorrente,  in tal caso  sono presenti alcuni sintomi che, interessando  diversi apparati, risulta   difficile addebitarli  all’iperventilazione, essi sono: singhiozzo ripetuto, dolori al torace, vertigini, secchezza della cavità orale, palpitazioni, spasmi muscolari alle estremità, sbadigli, necessità di effettuare respiri profondi, disturbi del sonno, astenia profonda, intorpidimento, formicolii agli arti e periorali , disturbi del circolo periferico, spasmi bronchiali,  turbe gastro-enteriche etichettate come colon irritabile o come sindrome dispeptica. Mentre la forma acuta è più facile da diagnosticare, la seconda lo è molto meno   se non si ha una  certa esperienza clinica  nel merito e se non si osserva, da parte del curante,  il modo anomalo di respirare del paziente. In ambedue le forme  un aiuto può essere fornito dal laboratorio sottoponendo il paziente ad una  emogas analisi che permette di rilevare le eventuali modificazioni della CO2, dell’O2 e del pH del plasma;  nelle forme croniche  per misurare il livello della CO2 nell’organismo può essere utile e semplice  l’esecuzione della cosiddetta   “Pausa  di controllo” che consiste nel valutare per quanto tempo, dopo una espirazione normale, si può stare in apnea senza il minimo sforzo; in presenza di iperventilazione la durata è  al di sotto di 25 secondi  (valori normali: 50-60 sec.).

    La  patogenesi della suddetta sindrome  è legata ad un incremento del volume respiratorio nell’unità di tempo; infatti dai normali 5 litri  si può passare ai 10-15 litri e più  al minuto. Generalmente, se non si è in presenza di malattie cardiovascolari o di gravi infezioni cerebrali,  l’iperventilazione  non  incrementa l’ossigenazione in quanto quest’ultima dipende dai valori  dell’emoglobina, ma al contrario  favorisce l’eliminazione esagerata della  C02   a causa della sua estrema diffusibilità alveolare;  ciò comporta uno stato di ipocapnia associato ad un  pH ematico marcatamente  alcalino  in quanto  la CO2 è presente disciolta nel plasma  come acido carbonico; si possono associare ipocalcemia e ipomagnesemia come compenso per l’eccessiva eliminazione dei bicarbonati attraverso il rene. Tali modificazioni,  secondo l’Effetto Bohr ( in questo caso modificato) causano uno spostamento verso sinistra della curva di dissociazione dell’Ossiemoglobina e con essa una ridotta cessione di Ossigeno ai tessuti periferici ed in particolar modo alle strutture cerebrali creando delle disfunzioni a carico dei lobi frontali, del Sistema Limbico, dell’Amigdala, dei nuclei Talamici anteriori  e soprattutto del Locus  ceruleus  dal quale deriva la maggior parte della Nor-adrenalina cerebrale, ormone   coinvolto nelle risposte di stress e di panico che a loro volta sono  peggiorate dall’insorgenza di falsi  segnali di asfissia.

  Purtroppo l’ipocapnia, oltre a ridurre  l’ossigenazione per una vasocostrizione dei vasi cerebrali (documentabile con esami di Neuroimaging),   è causa  di spasmi a carico della muscolatura liscia dei vari organi a struttura tubulare (esofago, stomaco, intestino, bronchi) le cui patologie ho sopraelencato e che in qualche modo possono  rientrare  nel gruppo delle malattie psicosomatiche; qualora non venga  preso in considerazione  l’effetto causale della iperventilazione cronica, le stesse  vengono diagnosticate come  Distonie neurovegetative essenziali (?)  e trattate per lungo tempo con farmaci  ansiolitici (considerati le tachipirine dell’ansia) in associazione  talvolta ai farmaci antidepressivi.

Al fine di ridurre l’insorgenza di questa patologia  è necessario correggere la nostra respirazione soprattutto a riposo ripristinando  la funzione del muscolo diaframmatico che ha la capacità di espandere  i 2/3 inferiori dei polmoni; è fondamentale rallentare  la frequenza dell’atto respiratorio, un  esempio:  l’inspirazione e  l’espirazione dovrebbero ognuna avere la durata   di cinque secondi, l’intervallo tra di esse e tra due atti respiratori consecutivi  dovrebbe  essere ancora di cinque  secondi (questi tempi  possono allungarsi  con un esercizio graduale); tale  tipo di respiro  normalizza la CO2 ematica riducendone l’eccessiva perdita alveolare e quindi  migliorando  l’ossigenazione; questa  pratica che andrebbe esercitata  per alcuni minuti al giorno e per lungo tempo facilita,  a riposo,  l’instaurarsi di una respirazione diaframmatica spontanea. Tale modalità  respiratoria  è indicata per tutti e in particolar modo per quei soggetti che vivono   in uno stato di ansia  cronica e  che talvolta sono considerati malati immaginari in quanto iperventilano in modo poco evidente. . 

  A conferma di quanto riportato, è noto che le varie tecniche di rilassamento e tra queste  la pratica dello Yoga, una disciplina orientale millenaria, si basano su una respirazione calma,  non celere e concentrata sul diaframma e pertanto  risultano efficaci nel trattare e nel prevenire le suddette disfunzioni respiratorie; infatti  rappresentando le stesse  un anello di congiunzione tra soma e psiche,  sono capaci di  promuovere  un  benessere mentale, psicologico e fisico.

  Da quanto si evince  la sindrome da  iperventilazione, può essere trattata  anche con le sole potenzialità che Madre Natura ha posto in ognuno di noi rappresentate in questo caso dal ripristino di  una respirazione corretta. Per far questo è fondamentale riscoprire la funzione del muscolo diaframmatico da moltissimo tempo dimenticata!

 Pertanto  poiché esiste anche un nesso evidente tra   il nostro stato d’animo e il nostro respiro è auspicabile per tutti  rieducare quest’ultimo al fine di rendere la nostra vita più serena  riducendo  lo stress quando è eccessivo  e che  risulta essere alla base di molte patologie che purtroppo  oggi  trovano soluzioni terapeutiche  soltanto sintomatiche.          

GLI ANTICORPI MONOCLONALI NELLA CURA DEL CANCRO E DI’ ALCUNE MALATTIE DEL SISTEMA IMMUNITARIO


Nel 1984 fu assegnato il Premio Nobel per la Medicina a tre scienziati: G. Kohler, C.Milstein e a N. K. Jerne perché mettendo a punto la cosiddetta “Fusione Cellulare”,  come dirò più avanti, diedero un impulso  notevole per l’ottenimento dei cosiddetti “Anticorpi Monoclonali” (mAb) che tanta importanza hanno oggi e soprattutto avranno in futuro per la terapia di alcune malattie fino ad ora  non completamente curabili. Essi  si possono definire in modo più appropriato  farmaci biologici  perché sono proteine e non sostanze chimiche che permettono di attuare una specifica immunoterapia in quanto combattono alcuni fattori (i cosiddetti promotori di alcune patologie) che in sostanza  rappresentano gli antigeni o sostanze estranee  per i quali sono stati creati.

  Il medesimo termine Anticorpo suggerisce che la loro azione si basa sul contrasto e quindi sulla inattivazione  dei fattori sopracitati e nel contempo sul rispetto e sulla salvaguardia del nostro patrimonio cellulare sano. Pertanto agiscono in modo intelligente riducendo  l’insorgere di effetti collaterali gravi come purtroppo succede impiegando altre terapie più aggressive e meno specifiche.

  Generalmente gli anticorpi, chiamati anche Immunoglobuline,  sono prodotti dai Linfociti-B (una sottospecie di Globuli Bianchi) quando vengono a contatto con sostanze  estranee. Il termine Monoclonale deriva dalla parola Clone che designa una popolazione di cellule identiche sul piano genetico in quanto derivate da un’unica Cellula Madre e che riconoscono soltanto una specifica sostanza estranea.

  Per comprendere meglio la loro natura è necessario accennare alla metodica con la quale sono stati prodotti. All’inizio  i Ricercatori hanno utilizzato come cavia il topo in quanto, è risaputo, che  possiede un’organizzazione del Dna e l’espressione dei suoi Geni molto vicini a quelli umani. In esso hanno inoculato una determinata sostanza estranea; dopo essere stati sensibilizzati i Linfociti-B sono stati prelevati  e sono stati  posti in uno specifico mezzo di coltura insieme a cellule derivate da un  tumore del midollo osseo umano (mieloma).  A questo punto le due specie cellulari si sono fuse con l’aiuto di una determinata sostanza chimica  (ecco la fusione che ha meritato il Premio Nobel prima ricordato);  le cellule ottenute erano dei  linfociti particolari  perché  avevano  la capacità di produrre   anticorpi specifici in modo illimitato in quanto per una parte derivavano da una cellula tumorale in linea teorica immortale.

Purtroppo l’uso clinico nell’uomo di questi anticorpi è stato abbandonato perché  oltre ad essere poco efficaci davano luogo ad effetti collaterali gravi  in quanto  la loro origine in parte era derivante dal topo  e pertanto non risultavano compatibili nell’uomo. Fortunatamente attraverso una evoluzione tecnologica sempre più avanzata, basata sull’impiego della cosiddetta Ingegneria molecolare, che  manipola, sottrae, aggiunge e trasferisce  geni da cellule diverse,   è stato possibile sostituire tutte le  parti  della struttura dell’anticorpo derivanti dal topo, con componenti anticorpali  di origine umana, lasciando intatta  quella porzione di origine murina (topo) che era predisposta fisiologicamente a  legarsi all’antigene; ciò è stato possibile perché ogni anticorpo è composto da diverse parti intercambiabili.   Con questa metodica si sono creati alcuni mAb  che sono stati definiti “Umanizzati” e che sono risultati abbastanza  compatibili e nello stesso tempo  efficaci  una volta inoculati nell’uomo.

   Al fine di rendere gli mAb  completamente di origine umana e quindi molto più efficaci, con una durata di vita maggiore  e  scevri   da effetti secondari   si è preso in considerazione, per la loro produzione, il cosiddetto  “Topo Transgenico” cioè una cavia alla  quale  nel suo    primissimo stadio di embrione  sono  stati introdotti dei Geni umani che codificavano per gli anticorpi ( cioè quando si inoculavano antigeni  nei topi, questi ultimi producevano anticorpi umani). La tecnologia per umanizzare gli mAb ha rappresentato per la scienza una rivoluzione epocale. Oggi è  molto diffusa  la loro produzione  e  avendo  superato ormai da tempo i  test clinici,  sono disponibili , a parte il costo proibitivo per le casse statali.

  Alla fine di un lungo percorso caratterizzato da diverse tappe  si è avverato il sogno  di impiegare   armi immunologiche  per combattere malattie di diversa origine; infatti possono essere usate con successo per curare oggi alcuni tumori, sperando che in futuro si possa combatterli  tutti, alcune patologie autoimmunitarie, alcune affezioni di tipo  degenerativo riguardante ad esempio la Retina oculare  e per ultimo il Rigetto di un organo trapiantato resistente alle comuni terapie. Tali farmaci biologici rappresentano delle sostanze innovative che stanno cambiando la storia naturale dei tumori e in particolar modo di alcune forme  di Linfomi e Leucemie, dei melanomi oltreché del cancro della mammella in fase avanzata e del colon.  Il loro meccanismo d’azione  è basato principalmente sul fatto che essi legandosi ad un recettore specifico delle cellule malate (ad  esempio nei linfomi alla proteina CD-20, fondamentale per la vita delle stesse e  con la quale era stato costruito in laboratorio il relativo anticorpo) rende queste ultime più evidenziabili e quindi più riconoscibili da parte del sistema immunitario al fine di una loro eliminazione; inoltre hanno la capacità di bloccare  i cosiddetti Fattori di crescita   responsabili della proliferazione disordinata delle cellule. Ad esempio il Cetuximab un mAb  utilizzato per la terapia dei tumori del colon, della Testa e del Collo si lega ai recettori cellulari bloccando il cosiddetto  Fattore di crescita l’EGF (Epidermal Growth Factor)  impedendo in tal modo la loro progressione. Un altro tipo di mAb  il Bevacizumab ( meglio conosciuto come Avastin) utilizzato per i tumori del cervello, del colon, del polmone,  blocca un altro Fattore di crescita specifico che promuove la formazione di nuovi vasi sanguigni indispensabili per la nutrizione del tessuto tumorale arrestando in tal modo  il suo sviluppo.  Al fine di migliorare la loro efficacia è stato reso possibile l’impiego di   mAb coniugati con una sostanza citotossica oppure con un elemento radioattivo (Ittrio-90). Questa unione  ha   permesso  di veicolare tali sostanze soltanto a livello delle cellule tumorali evitando di intossicare e di irradiare  quelle sane.  

   Un ulteriore impiego di alcuni di essi è stato esteso alla cura delle varie malattie autoimmunitarie tra cui l’artrite reumatoide o  l’ileo-colite cronica   (Morbo di Crohn) che si basano su un malfunzionamento dell’attivazione del Sistema immunitario. All’uopo è stato creato un mAb, denominato Infliximab, contro il promotore di queste affezioni rappresentato dalla Linfochina TNF (Fattore di necrosi tumorale) prodotta da specifici Linfociti (Th1) e responsabile  dell’origine e del mantenimento di uno  stato infiammatorio.

Un’altro campo di applicazione del sopracitato Avastin riguarda una patologia oculare e cioè la Degenerazione maculare retinica associata ad una neo-genesi di vasi sanguigni. Agisce bloccando il promotore VEGF (cioè il Fattore di Crescita Vascolare) e, attraverso iniezioni intraoculari, impedisce l’istaurarsi  di una  cecità irreversibile.

  Per ultimo vorrei ricordare l’impiego di un altro  mAb (Basiliximab) che agisce bloccando il Rigetto di un trapianto d’organo in quanto annulla la funzione  dell’antigene CD-25  dei linfociti e quindi la loro superattivazione  che è alla base della perdita dell’organo.

    Quanto sopra riportato vuole avere l’intento di  fornire una conoscenza per sommi capi  riguardante la nuova realtà terapeutica incentrata sugli Anticorpi Monoclonali  che oggi rappresentano non soltanto una speranza, ma anche una certezza per sconfiggere in maniera definitiva malattie che fino a qualche anno fa risultavano invincibili. La loro scoperta rappresenta una svolta decisiva soprattutto in campo oncologico; l’aveva  sognata oltre un secolo fa  Paul Erlich (Padre della chemioterapia e Premio Nobel per la Medicina nel 1904) che aveva intuito che il cancro era un corpo estraneo e come tale doveva essere vinto mediante l’Immunologia. Il tempo e la genialità di molti ricercatori hanno premiato la sua intuizione e nello stesso tempo hanno reso possibile conoscere  l’origine  di alcune malattie invalidanti e  la loro relativa cura. Spero  di aver reso un po’ più comprensibile un argomento ostico soprattutto per i non addetti ai lavori, argomento che comunque ci introduce in  settori  affascinanti   della  medicina come  la Genetica e l’Immunologia  che lavorano in simbiosi  per rendere più accettabile la nostra condizione umana  da sempre  desiderosa di un futuro migliore.