lunedì 31 marzo 2014

I MIGRANTI DEL CONTINENTE AFRICANO: UNA PIAGA INSOLUTA CHE GENERA TRAGEDIE


I MIGRANTI DEL CONTINENTE AFRICANO: UNA PIAGA INSOLUTA  CHE GENERA TRAGEDIE

 

Le notizie che oggi ci giungono sempre più tragiche ed allarmanti dalle sponde del Mediterraneo, dai confini meridionali della Sicilia ed in particolare dall’isola di Lampedusa a proposito dell’inabissamento delle cosiddette “Carrette del mare” e dell’annegamento di centinaia di migranti provocano sgomento e nel contempo una sensazione di impotenza data la vastità del fenomeno che colpisce così tante persone in cerca di un riparo dalla miseria più nera, dalla mancanza di libertà, da guerre senza fine in definitiva popolazioni senza un barlume di speranza in un futuro più accettabile. Sono persone disperate di ogni età, anche bambini molto piccoli, che vengono sottoposti durante il tentativo di migrazione dalle loro terre di origine ad angherie, soprusi e violenze di ogni tipo (soprattutto per quanto riguarda le donne) da parte di personaggi criminali senza scrupoli che, in cambio di cifre esorbitanti, promettono un rifugio insperato verso le coste europee attraverso viaggi insicuri che in definitiva si traducono in veri e propri calvari su imbarcazioni prive di qualsiasi elementare confort e molto antiquate sul piano della tecnologia di navigazione.

   I migranti fuggono dalle loro patrie che un tempo furono terre di conquista da parte di alcuni stati europei che, in nome di un’idea di dominio smisurato, imposero con la forza politiche basate sullo  sfruttamento e sul controllo economico illimitato. Questo tipo di espansionismo irriducibile si trasformò in una forma di imperialismo che si tradusse in  una tendenza all’allargamento dei propri confini d’oltremare e nel contempo nell’imposizione di eventuali sbocchi commerciali alle proprie produzioni. Tali politiche contribuirono a trasformare la popolazione locale in un insieme di esseri umani privi di ogni diritto. Pertanto la loro fuga oggi non ha alternative, ma è sollecitata soprattutto da quell’innato istinto di sopravvivenza presente in ogni essere vivente. La necessità di tale scelta è così grande che mettono in gioco la loro identità, il loro senso di appartenenza e perfino una  loro  eventuale tragica fine. Tale forzata migrazione verso l’Europa, che risulta essere un vero e proprio Exodus non nasce per caso, ma ha delle precise origini  nel passato. L’Europa ed in particolar modo l’Italia  dalla fine dell’ottocento e fino agli anni ’30 del  secolo scorso, a causa dell’eccedenza della popolazione e per una conseguente grave crisi di posti di lavoro  dovuta alla nascente rivoluzione industriale  il tutto associato  a disordini sociali e da malcontenti insanabili, avevano bisogno di uno spazio vitale maggiore dove trasferire un  certo numero di persone al fine di risanare questo squilibrio demografico. Questa politica di conquista  non presentò un volto umano né un fine modernizzatore al contrario  considerò i popoli soggiogati,   a torto, esseri inferiori e pertanto   furono impiegati nei  lavori più umili e più faticosi in cambio di modeste ricompense salariali e fu imposto a loro di vivere in abitazioni primitive nei sobborghi più periferici delle  città; non furono  offerti   i mezzi per acculturarsi e per progredire nella scala sociale, né per rinsaldare il senso di appartenenza alla loro terra e alla loro bandiera, in breve fu negata ogni integrazione sociale; tutto ciò si tramutò in una assenza completa di promozione umana.  Qualche storico dell’epoca continua a riferire enfaticamente a proposito dei  miglioramenti apportati dai colonizzatori di allora alle infrastrutture dei luoghi di approdo come ad esempio: la costruzione di ponti, di strade, di ferrovie, di ospedali, di scuole; se queste migliorie furono realizzate  certamente  furono scarsamente  al servizio della popolazione locale. Questa politica colonizzatrice  esercitata per decenni  si esaurì progressivamente con la fine della seconda guerra mondiale. Ciò fu dovuto sia ad un indebolimento economico post-bellico  delle grandi potenze europee sia alla pubblicazione della cosiddetta “Carta Atlantica” dettata da W. Churchill e da F. D. Roosvelt in cui si enunciava il diritto di autodeterminazione  di tutti popoli sottoposti a dominazione straniera e la conseguente affermazione universale dei diritti di libertà.

Come si è visto  la politica coloniale in tanti anni  non soltanto non aveva creato alcun progresso tangibile nella vita di milioni di persone, ma lasciava anche in eredità molteplici problemi di grave sottosviluppo aggravati  dai meccanismi dell’economia mondiale; il tutto  in definitiva aveva reso difficile non soltanto la nascita dell’indipendenza africana ma anche  la creazione di Nazionalità distinte ed autonome. A peggiorare questa problematica  si associava la multiforme  etnia dei vari popoli africani, l’importanza  sul piano economico della loro  residenza in aree costiere o dell’entroterra in una stessa regione, la presenza di fedi religiose diverse  oltre ad una esplosione demografica  gigantesca e senza precedenti dovuta ad un mancato controllo delle nascite; a conferma di ciò basta ricordare  che la popolazione africana nel 1970 era di 400 milioni e ai giorni nostri sfiora il miliardo.

Date queste premesse si può dire tranquillamente che le migrazioni massicce dei nostri giorni non si possono definire spostamenti biblici, ma sono invece legate a pregresse  politiche  non lungimiranti che non hanno favorito una promozione umana civilizzatrice, ma al contrario hanno permesso situazioni ambientali invivibili, precarie condizioni sociali, miseria per scarsità di lavoro, un’assenza di scolarità,  una sanità pubblica inesistente o quantomeno di cattiva qualità e certamente non gratuita nei riguardi delle persone senza reddito; a completare questo  quadro tragico  anche oggi in assenza di democrazia vengono inflitti persecuzioni e carcere per chi si ribella in un clima di  guerre fratricide senza fine.

    Sono tutti questi elementi che oggi  fanno emergere nei popoli africani  il forte desiderio di libertà che si traduce in una decisione irrefrenabile di fuga riponendo ogni loro speranza nelle traversate del  Sahara e del Mediterraneo organizzate  da  bande di criminali a cui per necessità  si affidano quotidianamente  con i risultati tragici che sono sotto gli occhi di tutti. Da quanto sopraesposto  è logico definire queste migrazioni di massa un fenomeno fisiologico, storicamente giustificato ed attualmente  ineluttabile, altro che definirlo illegale e sanabile con l’incarceramento  di questi malcapitati e di chi, mosso da sentimenti di solidarietà umana, offre in mare un aiuto per salvare la loro vita. Al contrario dovrebbero trovare calda accoglienza e in quanto profughi, nella maggior parte di essi, hanno il diritto internazionalmente riconosciuto di essere considerati rifugiati politici  provenendo da paesi governati da dittature in perenne stato di guerra. L’Italia in primis e tutta l’Europa si devono far carico di risolvere questo grave problema che attualmente esiste e di cui esse stesse ne sono l’origine. L’Europa in particolare non  può tirarsi fuori ignorando il fenomeno migratorio e affermando che è soltanto un problema italiano. Prima di tutto perché l’Italia fa parte della Comunità Europea, ma anche perché molti stati europei in un passato recente svolsero una politica colonizzatrice in Africa  che si caratterizzò per lo sfruttamento delle terre conquistate in assenza di una promozione sociale per la popolazione di allora. Se i governi europei fossero oggi lungimiranti, allo scopo  di ridurre il fenomeno migratorio, dovrebbero concorrere tutti allo sviluppo dei Paesi africani invece di  lasciarli vivere nella miseria  negando ogni evidenza storica. Soltanto in questo modo il Mediterraneo cesserebbe di  essere    la tomba di milioni di disperati e  tornerebbe  ad essere  un confine sicuro e naturale per l’Europa intera oltre che  il Mare Nostrum culla da sempre di civiltà e di progresso.

     

 

 

LA MALATTIA DI ALZHEIMER: UNA DIAGNOSI PRECOCE PUO’


 
Avendo  conosciuto  indirettamente il dramma di chi è affetto dalla Malattia di Alzheimer sento la necessità di rendere nota  l’importanza di una sua diagnosi  precoce al fine di impedire  che la stessa  con il tempo  si manifesti in tutta la sua gravità, perché in tal caso l’irreversibilità diventerebbe la regola.  L’Alzheimer,  inserita dall’OMS tra le priorita’ globali  della Sanita’ pubblica mondiale,  anche per l’alto costo per le casse degli Stati (circa 650 miliardi di dollari l’anno), nella sua forma avanzata può essere definita una grave degenerazione di alcune aree  cerebrali che si manifesta clinicamente con  una grave demenza caratterizzata dalla perdita della memoria a breve e lungo termine, dalla riduzione del pensiero e del potere cognitivo, dallo spegnersi dei rapporti interpersonali che condannano il malato a vivere un’esistenza  di tipo vegetativo.

  Gli studi specifici sull’argomento  hanno evidenziato che i meccanismi che portano alla malattia conclamata iniziano  anche  venti anni prima che si instauri  una grave  riduzione del potere cognitivo.

  Non essendo oggi disponibile una terapia efficace, è importante  orientarsi verso la sua prevenzione o quanto meno verso lo spostamento della sua insorgenza possibilmente  più avanti nel tempo, ricordando di non considerarla un fenomeno ineluttabile della vecchiaia e quindi un prezzo da pagare per la nostra eventuale longevità. Pertanto la Scienza Medica, avendo molti anni a disposizione prima dell’instaurarsi della tragica e definitiva  situazione clinica,  può mettere in atto dei provvedimenti diagnostici clinici e strumentali  che ne permettano la scoperta  al suo  esordio peraltro poco sintomatico (a parte la presenza di una saltuaria smemoratezza) e insieme predisporre presidi comportamentali validati sul piano scientifico contro  l’evolversi della malattia quali: l’adozione di una  alimentazione corretta “Golden Standard”  per il cervello in associazione all’esercizio fisico costante, alla pratica  di  attività utili per socializzare,  di attività  cognitive  come letture, ascolto della musica, la soluzione di rebus ed infine di attività ricreative come il ballo, lo sport,  il  gioco e l’ascolto o la visione di   programmi  e spettacoli  formativi non stressanti.

   Dal punto di vista anatomico l’elemento  che caratterizza la malattia è la formazione di accumuli (Placche) di una sostanza di natura proteica chiamata  Beta-amiloide che si deposita tra le cellule nervose  inglobando le relative fibre, dapprima localizzate in un’area del cervello chiamata Ippocampo  che ha un ruolo nel consolidamento della Memoria a breve e a  lungo termine, quindi  anche a livello della corteccia cerebrale parietale, che è  deputata tra l’altro a fornire l’orientamento temporo-spaziale del  paziente. Tale sostanza risulta estremamente tossica  per le suddette cellule nervose in quanto  provoca il rilascio di sostanze ossidanti che alterano la chimica che presiede alla loro vitalità. La stessa promuove una  modificazione strutturale di una seconda proteina   denominata “Proteina Tau”  che   distrugge l’impalcatura   cellulare   lasciando come esito anomali grovigli cicatriziali. Il risultato è la  riduzione della comunicazione intercellulare che è  alla base dei vari disturbi presentati dai pazienti.

  Sfruttando l’importanza di queste due sostanze come elementi causali  si è visto che a scopo diagnostico è possibile dosarli nel Liquor mediante una semplice puntura lombare; una riduzione della prima ed un aumento della seconda rappresentano un primo approccio per formulare la diagnosi. Inoltre poiché  nel 25% dei pazienti  la causa è ereditaria,  può essere utile effettuare  un test specifico del Dna. Nella forma più frequente che compare  (dopo i 65 anni) si è scoperto che esiste nel Cromosoma 19 un Gene anomalo denominato ApoE-4 capace di produrre una particolare proteina che unendosi alla Beta-amiloide la rende più  tossica: questo dato genetico  può rappresentare un ulteriore campanello d’allarme, ma  non una certezza che la malattia possa instaurarsi perchè questo gene può essere disattivato con l’esercizio fisico o con la somministrazione di potenti antiossidanti come la vitamina E (Neal D.  Barnard, 2013)

   Un altro modo  per diagnosticarre tale malattia  è l’impiego della “Neuro Imaging”; il cervello può essere sottoposto  a scansioni con esami strumentali   come  la Risonanza Magnetica, la Spect e  la Pet:  la prima permette lo studio accurato della Struttura del tessuto cerebrale evidenziando  una riduzione di volume dell’Ippocampo  e gli iniziali depositi della Beta-amiloide; con la Spect si rileva  una  riduzione dell’afflusso di sangue e  con la Pet  una  diminuzione del metabolismo a livello della suddetta area (ambedue segni tipici iniziali di tale malattia).

 E’ auspicabile che lo sforzo di sensibilizzazione  per far  conoscere sempre meglio  la Demenza di Alzheimer possa portare  ad un suo riscontro diagnostico precoce   quando i danni risultano lievi e quindi compensabili. Purtroppo quando si è verificata la diffusione in altri  distretti cerebrali per un ritardo di diagnosi ogni tentativo riabilitativo  risulta scarsamente  efficace.  Oggi poiché  non esistono  farmaci  validi  (scarsi i miglioramenti, mai la guarigione) senza pesanti effetti collaterali  è necessario ricorrere a metodi terapeutici naturali che sono noti da sempre   per mantenere in salute il cervello.  Faccio riferimento ad un cambio di direzione dell’alimentazione attualmente orientata sull’uso esagerato di cibi pieni di grassi saturi (carni e latticini di ogni tipologia e di ogni provenienza) in quanto risultano svolgere un’attività pro-infiammatoria che rappresenta un’ulteriore concausa della demenza. L’adozione della Dieta Mediterranea al contrario  rappresenta un buona scelta  per limitare i danni di un Alzheimer incipiente in quanto ricca di Acidi grassi essenziali  (gli omega-3 che  per il 60% risultano essere i componenti delle strutture cerebrali),  di frutta fresca e secca e di verdure  che contengono  tutte le  vitamine ben 18  (in particolare: E, B12, B6, Acido folico) e tutti  micronutrienti  naturali (ben sedici) come il cromo ,lo zinco, il rame e molti altri che risultano essenziali per accelerare  il metabolismo e  la disintossicazione quotidiana  mantenendo  in perfetto equilibrio tutte le funzioni cerebrali. Peraltro è necessario bandire, perché non assimilabili,  questi ultimi microelementi confezionati in laboratorio.  Mi chiedo come è possibile oggi alimentandosi in maniera scriteriata vivere in salute? E’ necessaria  una dieta più armonizzata con la natura per impedire o  rallentare, se presente,  un incipiente  declino cognitivo.

    Un altro pilastro da adottare per la prevenzione o per impedire l’aggravamento di questa malattia  è l’Esercizio fisico (almeno un’ora di cammino più volte a settimana); esso  migliora la circolazione,  la nutrizione del cervello, tenendo anche sotto controllo la pressione arteriosa, il peso corporeo,  oltre ad   incrementare  la produzione di una sostanza denominata BDNF (fattore neurotrofico cerebrale) che favorisce la costruzione di nuove sinapsi e svolge un’azione protettiva e rivitalizzante  verso le cellule nervose.

  Oltre all’esercizio fisico risulta essenziale  anche l’esercizio mentale. L’Informatica per favorirlo  ha messo a punto  programmi di addestramento allo scopo di incrementare la  Riserva Cognitiva, un sistema moderno  per rafforzare la memoria. In breve più nella nostra vita stimoliamo naturalmente o con programmi adeguati la nostra mente più costruiamo delle interconnessioni cerebrali che prenderanno il posto di quelle che in futuro saranno perdute  in corso di un eventuale  deterioramento mentale.  Più siamo ricchi di sinapsi più possiamo far fronte ad un futura disfunzione cerebrale. Non necessita essere dei super scienziati   per avere una Riserva cognitiva adeguata,  basta una base scolastica  pregressa ampliata  da vari interessi e da semplici esercizi per mantenere fluida la nostra memoria e per allargare il nostro sapere. L’inattività crea la ruggine che non è un termine  pleonastico, ma  un fatto reale;  nel nostro caso è rappresentata  dalla Beta-amiloide.

 Il nostro cervello è simile ad un prototipo di una macchina che lasciato a lungo  a riposo  stenta  a rimettersi in moto. Ci si salva dall’Alzheimer soltanto se si coltivano interessi  anche al di fuori dell’ambiente di lavoro, se si rifugge l’isolamento  rapportandosi fattivamente con chi ci vive accanto.  Oggi,  soltanto una diagnosi precoce e l’accettazione di uno stile di vita secondo natura può tenere lontano almeno le gravi conseguenze di questa malattia; la speranza  di tutti è che ulteriori conoscenze possano rendere  il   futuro  libero   dall’Alzheimer, ritenuto fino ad oggi universalmente un vero e proprio flagello dell’umanità.

        

PER UNA MEDICINA CHE SIA CENTRATA SULLA PERSONA


 
Dal titolo di questo mio scritto si evince un concetto scontato cioè quello di considerare in ogni campo e in ogni attività  l’uomo come Persona in tutta la sua interezza;  purtroppo da molto tempo non viene data a tale asserzione  il giusto rilievo da parte anche della Medicina ufficiale che al contrario nella sua pratica generalmente pone come fondamento diagnostico e terapeutico la tecnologia che la scienza le mette sempre più a disposizione e nel contempo si interessa poco dell’Uomo in toto  come persona.

  Si preferisce esaminare il malato per via analitica attraverso i risultati di vari esami di laboratorio, attraverso esami strumentali tra i più sofisticati oppure attraverso test genetici, mettendo in secondo piano il rapporto personalizzato tra medico e paziente che nei tempi passati era considerato basilare ai fini del raggiungimento di un risultato curativo più o meno stabile. Tale rapporto non dovrebbe  rappresentare  soltanto un principio etico, perché   nell’ esperienza di tutti i giorni si è dimostrato  un fattore terapeutico essenziale come d’altra parte la Psicologia clinica insegna. In assenza di questa componente umana la figura del medico rischia di diventare astratta  in quanto viene data molta importanza, in un evento patologico, allo stato psico-fisico dell’ ”Essere malato” trascurando quello  del “Sentirsi malato”. Purtroppo in tal modo si arriva al paradosso di diagnosticare talvolta a distanza  uno stato morboso anche per via on-line senza conoscere  le caratteristiche personali di un paziente; infatti si prende in considerazione in questo caso  purtroppo soltanto il concetto dell’”essere malato”. Ciò  si verifica perché il medico si basa su standard e protocolli predefiniti elaborati secondo un metodo statistico da anonimi esperti; in sostanza manca una medicalizzazione personalizzata che tenga conto del perché dell’insorgenza di una malattia in un determinato individuo e in un determinato momento della sua vita,  trascurando il contributo che possono avere  le   sue emozioni, il suo stato d’animo, la sua vita familiare, le sue problematiche lavorative ed esistenziali  per giungere ad una accurata diagnosi, in breve non si pone la dovuta attenzione al suo stato di “Sentirsi malato”.

  Adottando da parte dei medici questo sistema comportamentale si raggiunge il solo  scopo curativo di attenuare i sintomi  senza  scoprire  l’origine profonda che possono avere gli stessi. Questi ultimi non sono altro che dei campanelli di allarme con i quali l’organismo cerca di richiamare l’attenzione del paziente e quindi del terapeuta, ma nei modelli curativi attuali non ci si preoccupa di scoprire da quali squilibri interiori  possono trarre origine.  Sarebbe auspicabile, quando  si è in presenza di  manifestazioni patologiche più o meno gravi,  che il medico mettesse da parte la fretta e adoperasse il suo istinto empatico al fine di   entrare nella storia intima  del paziente  per  comprendere fino in fondo il suo disagio e la vera origine  della malattia  che è in atto, come peraltro fanno con successo gli operatori della cosiddetta Medicina alternativa che tanta importanza danno al colloquio prolungato con il malato. Soltanto in questo modo si prenderebbe  in  considerazione lo stato psicofisico del “Sentirsi malato”  con risvolti positivi sull’esito dell’evento morboso.  Per la Medicina di oggi è augurabile un ritorno ai tempi passati quando la centralità dell’uomo assumeva un ruolo fondamentale nell’atto terapeutico. A tal proposito è necessario rispolverare l’imperativo Kantiano e cioè che: “L’uomo è sempre e solo fine e mai mezzo”. Solo in tal modo verrebbe salvaguardata la sua dignità. Di conseguenza la Medicina è tanto più umana quanto più  sa rispettare questa dignità dell’uomo sofferente che spesso si viene a trovare in situazioni  gravi ed umilianti. Non bisogna dimenticare che il male altera  in maniera sostanziale non soltanto  gli equilibri fondamentali della persona per quanto riguarda i  rapporti che esistono tra corpo, psiche e spirito, ma anche quelle relazioni con altre persone del suo ambito familiare, di lavoro, di studio. E’ importante sottolineare che trovandosi l’uomo in una situazione di precarietà e di fragilità, necessita da parte di chi  lo assiste l’obbligo di una attenzione particolare, di un servizio più amichevole e disinteressato, di un aiuto premuroso e concreto che possa accompagnarlo  fuori dal tunnel pericoloso in cui all’improvviso si è venuto a trovare. Quanto sopradetto potrebbe concretizzarsi con un ascolto più attento e meno frettoloso della storia che il malato propone, ascolto che ha tanto valore per una sanità più umana e  più efficiente. Perché l’uomo malato non è una macchina rotta che va riparata come potrebbe fare un meccanico;  al contrario possedendo una componente  interiore impalpabile ma reale fatta nel suo insieme:  di processi cognitivi,  di pensiero, di memoria, di sensibilità emozionale, tutti fattori che  influenzano grandemente l’evento morboso, necessita per il successo della cura  un intervento medico  che si prefigga  di scandagliare  queste sue prerogative  personali peraltro  estremamente importanti. In caso contrario la malattia si cronicizza e le ripetute e molteplici  somministrazioni farmaceutiche risulteranno la regola. Tutto ciò a scapito soprattutto del malato ed anche delle finanze pubbliche. Per  completare  l’approccio personalizzato alla malattia non può assolutamente mancare  la cosiddetta “Clinica” che si basa in particolare su una visita generale accurata. Il paziente ha bisogno di essere toccato, di essere auscultato, di essere esaminato a fondo prima di invitarlo a sottoporsi ad eventuali esami specifici. Quante volte abbiamo sentito dire da parte di alcuni malati:” Finalmente ho trovato un medico che mi ha fatto una bella visita”! Questa esclamazione è legata alla rarità dell’evento.

  Alcune  volte il malato uscendo da un ambulatorio, se ha ricevuto l’attenzione dovuta al suo caso clinico, si sente migliorato; è conscio che in questo caso la sua problematica è stata presa in considerazione come egli desiderava. Realmente si sono messi in moto degli stimoli  concreti che hanno ridotto il suo stato di stress sempre presente quando si è in preda ad uno stato di paura che quasi sempre accompagna la malattia. Non è augurabile per un medico non provare compassione per un malato e non condividere il suo stato di sofferenza. La freddezza emotiva non si addice ad un terapeuta; infatti da sempre è stata  l’Humanitas il tratto che ha caratterizzato la   figura del luminare e  del medico di base, portatore del sapere scientifico il primo e di conoscenze pratiche il secondo. Forse è difficile far rivivere in tutta la loro importanza queste figure, ma si impone parlarne per invogliare i futuri medici a prenderle ad esempio. Sono sempre più convinto che tale sentimento non si prende più in considerazione nella selezione della futura classe medica; infatti oggi quest’ultima, data per scontata l’assenza della meritocrazia,  viene scelta con un test di cultura generale spicciola escludendo di scoprire le vere motivazioni personali che dovrebbero spingere i  giovani ad intraprendere una professione altamente umanizzante nei confronti della società.  A tal proposito è  necessario tenere a mente che la Medicina non è sicuramente una scienza fatta di numeri e formule matematiche, ma al contrario è un’Arte (la Tècne  iatrikè degli antichi greci la cui traduzione indica  un tipo di attività artigianale che opera la sintesi tra scienza, tecnica e arte) che necessita sì di conoscenze scientifiche, ma che fondamentalmente si basa sull’umiltà e sul rispetto nel rapportarsi con la persona malata. E’ una professione esaltante, affascinante talvolta gratificante, ma anche impegnativa perché mette in campo nel suo svolgimento pratico l’istinto empatico (secondo me innato), lo studio, l’aggiornamento scientifico costante e il desiderio molto sentito di aiutare chi è in difficoltà. Secondo le mie convinzioni se mancano questi elementi si tradisce la Medicina  rendendola  impersonale e svuotata  dei principi per i quali è nata. Mi auguro che questa meravigliosa professione abbandoni la standardizzazione efficientistica aziendale il cui scopo  oggi è quello di  produrre anche utili  e risparmi, come la politica impone, ma  che talvolta rendono più difficile il percorso di guarigione di chi sta male;  e nello stesso tempo auspico che la stessa intraprenda un nuovo corso fondato su una maggiore personalizzazione e umanizzazione, da estendere anche ai luoghi di cura, a tal punto  da rendere meno difficile e complicato  il processo  curativo e la restituzione alla vita di quanti oggi si trovano a combattere  con un male che certo non hanno desiderato,ma che per sorte purtroppo  sono costretti ad affrontare.