giovedì 22 maggio 2014

PER UNA MEDICINA CHE SIA CENTRATA SULLA PERSONA


  Dal titolo di questo mio scritto si evince un concetto scontato cioè quello di considerare in ogni campo e in ogni attività  l’uomo come Persona in tutta la sua interezza;  purtroppo da molto tempo non viene data a tale asserzione  il giusto rilievo da parte anche della Medicina ufficiale che al contrario nella sua pratica generalmente pone come fondamento diagnostico e terapeutico la tecnologia che la scienza le mette sempre più a disposizione e nel contempo si interessa poco dell’Uomo in toto  come persona.

  Si preferisce esaminare il malato per via analitica attraverso i risultati di vari esami di laboratorio, attraverso esami strumentali tra i più sofisticati oppure attraverso test genetici, mettendo in secondo piano il rapporto personalizzato tra medico e paziente che nei tempi passati era considerato basilare ai fini del raggiungimento di un risultato curativo più o meno stabile. Tale rapporto non dovrebbe  rappresentare  soltanto un principio etico, perché   nell’ esperienza di tutti i giorni si è dimostrato  un fattore terapeutico essenziale come d’altra parte la Psicologia clinica insegna. In assenza di questa componente umana la figura del medico rischia di diventare astratta  in quanto viene data molta importanza, in un evento patologico, allo stato psico-fisico dell’ ”Essere malato” trascurando quello  del “Sentirsi malato”. Purtroppo in tal modo si arriva al paradosso di diagnosticare talvolta a distanza  uno stato morboso anche per via on-line senza conoscere  le caratteristiche personali di un paziente; infatti si prende in considerazione in questo caso  purtroppo soltanto il concetto dell’”essere malato”. Ciò  si verifica perché il medico si basa su standard e protocolli predefiniti elaborati secondo un metodo statistico da anonimi esperti; in sostanza manca una medicalizzazione personalizzata che tenga conto del perché dell’insorgenza di una malattia in un determinato individuo e in un determinato momento della sua vita,  trascurando il contributo che possono avere  le   sue emozioni, il suo stato d’animo, la sua vita familiare, le sue problematiche lavorative ed esistenziali  per giungere ad una accurata diagnosi, in breve non si pone la dovuta attenzione al suo stato di “Sentirsi malato”.

  Adottando da parte dei medici questo sistema comportamentale si raggiunge il solo  scopo curativo di attenuare i sintomi  senza  scoprire  l’origine profonda che possono avere gli stessi. Questi ultimi non sono altro che dei campanelli di allarme con i quali l’organismo cerca di richiamare l’attenzione del paziente e quindi del terapeuta, ma nei modelli curativi attuali non ci si preoccupa di scoprire da quali squilibri interiori  possono trarre origine.  Sarebbe auspicabile, quando  si è in presenza di  manifestazioni patologiche più o meno gravi,  che il medico mettesse da parte la fretta e adoperasse il suo istinto empatico al fine di   entrare nella storia intima  del paziente  per  comprendere fino in fondo il suo disagio e la vera origine  della malattia  che è in atto, come peraltro fanno con successo gli operatori della cosiddetta Medicina alternativa che tanta importanza danno al colloquio prolungato con il malato. Soltanto in questo modo si prenderebbe  in  considerazione lo stato psicofisico del “Sentirsi malato”  con risvolti positivi sull’esito dell’evento morboso.  Per la Medicina di oggi è augurabile un ritorno ai tempi passati quando la centralità dell’uomo assumeva un ruolo fondamentale nell’atto terapeutico. A tal proposito è necessario rispolverare l’imperativo Kantiano e cioè che: “L’uomo è sempre e solo fine e mai mezzo”. Solo in tal modo verrebbe salvaguardata la sua dignità. Di conseguenza la Medicina è tanto più umana quanto più  sa rispettare questa dignità dell’uomo sofferente che spesso si viene a trovare in situazioni  gravi ed umilianti. Non bisogna dimenticare che il male altera  in maniera sostanziale non soltanto  gli equilibri fondamentali della persona per quanto riguarda i  rapporti che esistono tra corpo, psiche e spirito, ma anche quelle relazioni con altre persone del suo ambito familiare, di lavoro, di studio. E’ importante sottolineare che trovandosi l’uomo in una situazione di precarietà e di fragilità, necessita da parte di chi  lo assiste l’obbligo di una attenzione particolare, di un servizio più amichevole e disinteressato, di un aiuto premuroso e concreto che possa accompagnarlo  fuori dal tunnel pericoloso in cui all’improvviso si è venuto a trovare. Quanto sopradetto potrebbe concretizzarsi con un ascolto più attento e meno frettoloso della storia che il malato propone, ascolto che ha tanto valore per una sanità più umana e  più efficiente. Perché l’uomo malato non è una macchina rotta che va riparata come potrebbe fare un meccanico;  al contrario possedendo una componente  interiore impalpabile ma reale fatta nel suo insieme:  di processi cognitivi,  di pensiero, di memoria, di sensibilità emozionale, tutti fattori che  influenzano grandemente l’evento morboso, necessita per il successo della cura  un intervento medico  che si prefigga  di scandagliare  queste sue prerogative  personali peraltro  estremamente importanti. In caso contrario la malattia si cronicizza e le ripetute e molteplici  somministrazioni farmaceutiche risulteranno la regola. Tutto ciò a scapito soprattutto del malato ed anche delle finanze pubbliche. Per  completare  l’approccio personalizzato alla malattia non può assolutamente mancare  la cosiddetta “Clinica” che si basa in particolare su una visita generale accurata. Il paziente ha bisogno di essere toccato, di essere auscultato, di essere esaminato a fondo prima di invitarlo a sottoporsi ad eventuali esami specifici. Quante volte abbiamo sentito dire da parte di alcuni malati:” Finalmente ho trovato un medico che mi ha fatto una bella visita”! Questa esclamazione è legata alla rarità dell’evento.

  Alcune  volte il malato uscendo da un ambulatorio, se ha ricevuto l’attenzione dovuta al suo caso clinico, si sente migliorato; è conscio che in questo caso la sua problematica è stata presa in considerazione come egli desiderava. Realmente si sono messi in moto degli stimoli  concreti che hanno ridotto il suo stato di stress sempre presente quando si è in preda ad uno stato di paura che quasi sempre accompagna la malattia. Non è augurabile per un medico non provare compassione per un malato e non condividere il suo stato di sofferenza. La freddezza emotiva non si addice ad un terapeuta; infatti da sempre è stata  l’Humanitas il tratto che ha caratterizzato la   figura del luminare e  del medico di base, portatore del sapere scientifico il primo e di conoscenze pratiche il secondo. Forse è difficile far rivivere in tutta la loro importanza queste figure, ma si impone parlarne per invogliare i futuri medici a prenderle ad esempio. Sono sempre più convinto che tale sentimento non si prende più in considerazione nella selezione della futura classe medica; infatti oggi quest’ultima, data per scontata l’assenza della meritocrazia,  viene scelta con un test di cultura generale spicciola escludendo di scoprire le vere motivazioni personali che dovrebbero spingere i  giovani ad intraprendere una professione altamente umanizzante nei confronti della società.  A tal proposito è  necessario tenere a mente che la Medicina non è sicuramente una scienza fatta di numeri e formule matematiche, ma al contrario è un’Arte (la Tècne  iatrikè degli antichi greci la cui traduzione indica  un tipo di attività artigianale che opera la sintesi tra scienza, tecnica e arte) che necessita sì di conoscenze scientifiche, ma che fondamentalmente si basa sull’umiltà e sul rispetto nel rapportarsi con la persona malata. E’ una professione esaltante, affascinante talvolta gratificante, ma anche impegnativa perché mette in campo nel suo svolgimento pratico l’istinto empatico (secondo me innato), lo studio, l’aggiornamento scientifico costante e il desiderio molto sentito di aiutare chi è in difficoltà. Secondo le mie convinzioni se mancano questi elementi si tradisce la Medicina  rendendola  impersonale e svuotata  dei principi per i quali è nata. Mi auguro che questa meravigliosa professione abbandoni la standardizzazione efficientistica aziendale il cui scopo  oggi è quello di  produrre anche utili  e risparmi, come la politica impone, ma  che talvolta rendono più difficile il percorso di guarigione di chi sta male;  e nello stesso tempo auspico che la stessa intraprenda un nuovo corso fondato su una maggiore personalizzazione e umanizzazione, da estendere anche ai luoghi di cura, a tal punto  da rendere meno difficile e complicato  il processo  curativo e la restituzione alla vita di quanti oggi si trovano a combattere  con un male che certo non hanno desiderato,ma che per sorte purtroppo  sono costretti ad affrontare.